Velasco Vitali: la bellezza salverà il mondo

Velasco Vitali: la bellezza salverà il mondo

L’artista di Bellano racconta una scultura e una pittura metaforica, dove elementi, materiali e contrasti si mescolano e comunicano la natura umana

Articolo uscito su La Bréva, Giornale di Lecco, il 29 ottobre 2018.

Ti apre la porta con il sorriso, Velasco, in una piccola corte di Milano, in un quartiere multietnico che sa di Cina. Uno spazio grande, ampio, bianco. In mezzo, questi cani che sembrano giganti. Gli dico: “me li aspettavo più piccoli, i cani”. Risponde un po’ impacciato. I cani di dimensione normale ci sono, ma devi entrare nello studio. “Il branco”, non i cani, mi corregge. Branco, perché l’opera non è il singolo, ma il gruppo.

Tanti cani. Seduti, sdraiati, in posizioni che sfidano quasi le leggi della fisica dello stare in piedi. Cani scuri, chiari, allacciati ai materiali di cui sono composti. E le mongolfiere e i quadri.

Mi chiede se voglio un caffè, ma poi Francesco, che lavora con lui, trasporta dentro un cane. E su quel cane sono posate tre paia di occhi: gli occhi del ragazzo della fonderia, quelli di Francesco e quelli di Velasco. Io, sul divano bianco li guardo. Poi, mi avvicino. Un pennello sporco di azzurro cielo, due pennellate decise.

Il bronzo chiaro, dipinto di blu. Chiedo perché il blu, se è bello vedere il cane di bronzo. “Ma il blu è il colore dei lapislazzuli”, dice Velasco. “Non dirmi niente, se no mi condizioni”, ride. Poi prende il colore con le dita, lo passa sulla schiena del cane, sulle giunture di saldatura. Ci pensa un po’, poi lo sfuma.

E viene bellissimo il retro del cane. Bronzo chiaro contro azzurro cielo. Però poi dobbiamo farla questa intervista. Ritorna al mio caffè. “Scusa è cattivo”. Ma non è poi così cattivo, alla fine. Si siede e inizia a parlare. Quando accendo il registratore del telefono, si blocca. Me ne accorgo, glielo dico. “È difficile, sai, ripartire dalle origini.” E allora me lo immagino ragazzino, perché ogni uomo lo è stato. Me lo immagino bambino tra i pennelli, Velasco. Quelli di suo padre.

“Ho cominciato prestissimo a disegnare. Prestissimo vuol dire proprio 5 anni e quindi sapevo che questa era la mia strada. Però, capivo che c’erano cose più divertenti, come la vela e quindi mi piaceva molto. Infatti, molti miei amici l’hanno fatto come professione. Io non so, forse non ero strutturato dal punto di vista mentale per affrontare una cosa così seria, metodologica. Poi alla fine c’è voluta più metodologia nel fare l’artista”.

Una delle cose più vicine al disegno era la fotografia e Velasco ci ha provato, ma non era la sua strada “io partivo sempre per una tangente che era quella del disegno, fallendo nella competizione tra fotografia e disegno”. E quindi si è concentrato sulla sua natura, affrontando i cambiamenti del mondo dell’arte “facendo riferimento solo e nient’altro che alla mia grandissima passione e io lo dico senza troppi imbarazzi, talento per il disegno.”

Ma poi torniamo alla scultura del cane blu. Perché blu? “Quella scultura sarà inserita in uno luogo dove tutto è marrone, quindi il blu diventa un elemento inequivocabile: a me interessa molto la scultura come modellazione dello spazio e inserirla, come in questo caso a contrasto, trasforma l’intera stanza in una scultura. Il rapporto spaziale con gli elementi che ti circondano è importante esattamente come in architettura”. Insomma, prendere qualcosa e metterlo in contrasto con ciò che sta attorno, cercando di pensare all’insieme come a qualcosa di modellabile e plasmabile da un solo oggetto.

Il cane blu spicca in un contesto marrone, plasma il contorno. Ma non è solo quello. Il cane può sembrare solo un cane, ma in realtà è una descrizione del nostro tempo. I cani, “il gruppo è la metafora di ciò che siamo noi, è la nostra esistenza, siamo noi che siamo degli animali sociali. Tutto ciò è un lavoro che è ancora in corso, un lavoro che parte da paesaggio cancellato e arriva in questo momento”.

Un lavoro di vent’anni, sociologico e profondissimo, sulla condizione umana, iniziato con “uno sguardo sulle periferie delle città, uno sguardo un po’ romantico sul paesaggio che vive nella sua condizione più precaria”. E le città, per Velasco sono la più grande utopia costruita dall’uomo.

E poi ci sono i nomi. Perché per Velasco i nomi sono qualcosa di più: sono narrazioni, creano contesti, fanno arrivare messaggi e contengono oasi di contenuti. “L’immagine deve essere decodificata senza la necessità di decodificarne altri codici. Cioè, l’immagine deve apparire anche molto semplice, diretta: deve essere una città, un cane, una figura, una montagna. Quasi sempre, dietro questa apparenza o apparizione compare qualcosa, si apre un libro”.

Rappresentare con la pittura i problemi dell’uomo e l’essere uomo nella sua utopia, “vedere che cosa sta dal punto di vista estetico dentro il dramma delle cose” e lasciare un segno estetico di “salvezza, un appiglio”. Perché alla fine “nell’artista c’è sempre questa intima convinzione che la bellezza salverà il mondo”.

Ma il mio cinismo prevale, l’uomo è anche cattivo, distruttore. Glielo dico e mi risponde: “noi siamo esattamente queste due cose: il bene e il male contemporaneamente, il bello e il brutto. Vogliamo la bellezza e non sappiamo che abbiamo creato un motore che la distruggerà. Siamo anche senza colpa in quello, però è come se fossimo sempre inconsapevoli di qualcosa, c’è sempre qualcosa che ci distanzia da ciò che abbiamo creato”.

Ma il discorso di Velasco va avanti, scava l’animo umano , arriva alla radice, ritorna alla bellezza. Perché la bellezza è quello che siamo portati a costruire, distruggere e non smettiamo mai di ricreare ancora.

Sara Mauri

@SM_SaraMauri

About the author

Giornalista, ho scritto su Il Giornale (di carta), La Nuvola del Lavoro e La 27 Ora (Corriere della Sera), La Stampa, Startupitalia, Nonsoloambiente, Barche Magazine, Provincia di Lecco, nella mia rubrica La Bréva del Giornale di Lecco. Ora scrivo su Linkiesta.

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